Una storia sul femminicidio

Una storia sul femminicidio

Anita Betata Rzepecka, 30 anni, è caduta a terra per uno schiaffo ed è rimasta agonizzante per ore a terra. “Se lo meritava, non aveva lavato i piatti” ha detto l’uomo all’arrivo dell’ambulanza alla compagna che è morta poco dopo in ospedale (da La Repubblica di Bari – luglio 2017). Questo uno dei tanti episodi di cronaca che riguarda la violenza sulle donne: un tema molto, troppo, attuale.

Lo scrittore Edoardo Marzocchi, ha scritto sul tema del femminicidio il toccante e amaro racconto: Una domanda soltanto

Edoardo Marzocchi

Edoardo Marzocchi

Chi è Edoardo Marzocchi

Edoardo Marzocchi è nato a Grosseto nel 1973 e vive a Firenze. È laureato in Giurisprudenza, Scienze Politiche e Scienze della Sicurezza Economico-Finanziaria. Ufficiale Superiore della Guardia di Finanza, in servizio alla Direzione Investigativa Antimafia, è impegnato da sempre in settori operativi di contrasto alla criminalità organizzata.

 
Come scrittore, ha pubblicato i romanzi Fuori Corso e Dove tutto finisce (con prefazione del “Premio Strega” Sandro Veronesi), vincitore del “Fiorino d’Argento” al Premio Firenze 2017, oltre al saggio Vite nel vento, acquisito, quest’ultimo, anche dalle biblioteche delle università di Princeton, Harvard e Yale, nonché dalla “Library of Congress” e “The New York Public Library”.

 
Il racconto Una domanda soltanto è stato pubblicato in un’antologia sul tema del femminicidio, edita nel 2017 dal Consiglio Regionale della Toscana, dal titolo Succo di melograno.

Una domanda soltanto

di Edoardo Marzocchi

Le fiamme si sono spente ormai da un pezzo, ma l’auto, carbonizzata e fradicia, sembra che stia ancora piangendo, in una sofferenza intima e silenziosa per la tragedia che si è consumata.
Io sono qui davanti, tra la folla che si è radunata negli ultimi minuti, un mucchio di gente accalcata per capire cosa sia successo e allungare lo sguardo dentro il rottame alla ricerca di qualcosa, qualunque cosa che ormai non esiste più, almeno nella sua forma originaria.

Ad un certo punto, i pompieri estraggono un fardello carbonizzato, che tirano fuori con la calma di chi non ha più alcun motivo per femminicidio edoardo marzocchicorrere.
Un uomo distinto e vestito d’autorità, probabilmente il magistrato di turno chiamato sul posto, osserva in silenzio la scena a un metro di distanza, e si starà sicuramente facendo le stesse domande che avvolgono i pensieri dei presenti.

La prima è “chi”. Chi è, o meglio chi era, la persona bruciata lì dentro?
La seconda è “come”. Com’è potuto accadere? Sarà stato un incidente? Così, in fondo a una strada sterrata e deserta, di fronte a un tappeto di girasoli.
Le persone accanto a me si stringono, si allungano e premono per vedere meglio, fin quasi a schiacciarmi come se non esistessi, come se davanti a noi ci fosse uno spettacolo imperdibile, un set cinematografico o un teatro all’aperto con attori di strada.

 
Invece è tutto vero, com’è vero che io so rispondere a tutte le domande.
Il cadavere appena estratto è quello di una giovane donna, moglie e mamma, che fino a poche ore fa era di una bellezza delicata, gli occhi grandi e castani, i capelli corvini tenuti sempre legati e la frangia a coprire la fronte alta, il fisico esile e tirato di chi è sempre in movimento. Perché la giovane donna ha tanto da fare. O meglio, aveva. Aveva una figlia, di tre anni appena compiuti, eccola laggiù che sta arrivando la poverina, in braccio alla nonna trafelata che cerca di correre, come se il tempo per lei fosse ancora prezioso e indispensabile per cambiare la realtà, ma proprio sul finire viene bloccata dall’abbraccio forzato di un carabiniere in divisa che impedisce a chiunque di proseguire oltre, persino ai familiari della vittima.

nonno-e-nipoteLa piccola per fortuna non capisce cosa sta succedendo, non capisce che da oggi, da questo preciso istante, non avrà più il riferimento e il conforto della sua mamma, ma intuisce comunque che è accaduto qualcosa di grave, di molto grave, che in qualche modo la riguarda da vicino.

 

 

La nonna infatti grida, piange e si dimena nella stretta del carabiniere, ma alla fine cede e cade in ginocchio, tenendo sempre la bimba sollevata da terra, perché anche nella disgrazia, anche nella tragedia, l’attenzione è per lei, e d’ora in poi sarà sempre così.

Non riesco più a trattenermi e alla fine urlo: «Vattene, porta via quella creatura, subito!».
Ma la voce non mi esce, e nonna e nipote restano lì, tra le lacrime, il puzzo di bruciato, le parole confuse, la polvere e l’incoscienza.
Conosco perfettamente anche la risposta alla seconda domanda: com’è successo. E ora lo dirò, sì, lo dirò a tutti. È successo che la giovane donna ha, o meglio aveva, un marito, il padre della bambina, la stessa che intanto ha cominciato a piangere e a dimenarsi tra le braccia della nonna. L’uomo è molto conosciuto e a suo modo rispettato da queste parti, perché non è uno qualunque, ma uno che fa girare parecchi soldi, che arrivano in modo poco chiaro da uomini poco chiari in affari con lui, e lui investe, compra e vende non si sa bene cosa, ma evidentemente qualcosa che gli rende molto bene.

 
Lo sanno tutti da queste parti. E lo sapeva soprattutto la giovane moglie. Ma l’uomo le aveva detto di stare al suo posto e di non intromettersi in faccende più grandi di lei. E non era un invito.
«Pensa a fare la moglie tu, che al resto ci penso io» le aveva intimato senza mezzi termini. Ma lei ha visto e sentito cose che non avrebbe dovuto né vedere né sentire. Le ha tenute per sé e sopportate troppo a lungo, prima per lui, poi per il bene della figlia. Ma alla fine non ce l’ha fatta più e ha deciso di dire basta.

Basta, finché ieri sera il marito è arrivato a casa, ha dato un bacio in fronte alla figlia, ed è andato dritto in cucina, ha detto «Ciao» allal_060514_111753_02167_2-1470842901 moglie, intenta ai fornelli, l’ha abbracciata da dietro e l’ha baciata sul collo. Lei ha sorriso per la sorpresa di quel gesto inatteso, e il sorriso le è rimasto stampato sul viso anche nel momento in cui lui, senza dire una parola, le ha affondato la lama dritta nella schiena, all’altezza del cuore.

 

La mano libera dell’uomo le ha tappato la bocca, per evitare che gridasse, e la donna si è afflosciata di colpo lì dov’era, come un sacco vuoto, stringendo ancora in mano l’unica arma che immaginava di poter mai usare in vita sua, un mestolo di legno per girare la minestra che si stava scaldando in pentola.

A quel punto l’uomo l’ha presa in braccio, come quando l’aveva sollevata per entrare in casa il primo giorno di nozze e, senza farsi vedere dalla bimba, l’ha portata in garage e l’ha buttata nel bagagliaio dell’auto. Poi è salito di nuovo, ha spento il fuoco, ha servito la cena alla figlia, dicendole che la mamma era dovuta andare dalla zia, l’ha messa a letto e, appena addormentata, è sceso per finire il lavoro.
Ha acceso il motore ed è schizzato via verso un posto anonimo, col pensiero fisso di cancellare ogni traccia. Arrivato in fondo a una strada sterrata, di fronte a un campo di girasoli, ha sistemato la moglie al posto di guida, ha cosparso la donna e l’abitacolo di benzina, si è allontanato di qualche passo e si è acceso una sigaretta.

 
E adesso? Adesso è giunto davvero il momento che dica tutto, è giunta l’ora che faccia un passo avanti e mi stacchi dalle persone accanto a me e mi avvicini al carabiniere o direttamente al magistrato, per raccontargli tutto quello che so.
Forse non mi crederebbe, pensate? No, no, tranquilli, che mi crederebbe. Ma purtroppo mi rendo conto solo adesso che non posso farlo. Non è che mi manchi il coraggio, ma non posso proprio, perché in questo preciso istante dei signori, appena arrivati con un anonimo furgone scuro di un’anonima agenzia di pompe funebri, hanno sollevato il mio corpo da terra, dal punto in cui mi avevano adagiato i pompieri una volta estratta dall’auto, e mi hanno infilata e chiusa all’interno di un sacco bianco, parlando del fatto che mi riapriranno tra qualche ora sopra un tavolo di laboratorio per l’autopsia. Vorrei dire tutto credetemi, vorrei rispondere a tutte le domande, ma soprattutto vorrei correre da mia figlia, la mia vita, il mio amore indifeso, che non sa che le sto passando davanti in questo istante, vorrei stringerla forte e dirle che sto soffrendo come mai prima d’ora, ma non per me, non più, ma per il dolore incolmabile di averla lasciata. Non volevo, non immaginavo, che potesse finire così.

«Fatti forza, bambina mia, fatti forza ti prego! Anche se non mi senti, è la tua mamma che te lo dice, che ti supplica, che donna-che-piange-Alessandro-Pibiut’implora…».
E poi ecco, mentre il furgone scortato da un’auto dei Carabinieri si mette in marcia per portarmi via, arriva lui, con gli occhi rosso fuoco, iniettati di sangue e lacrime; lo so anche se non lo vedo. E tutto andrà com’è scritto, col padre sofferente e premuroso che si precipiterà ad abbracciare la piccola e tutti i presenti che si stringeranno a loro volta in un abbraccio corale intorno a lui, pover’uomo che ha appena perso la moglie. Ma una cosa grido da qui dentro, una domanda soltanto, eterna e indispensabile, quella stessa domanda che proprio la mia bambina iniziava a fare negli ultimi tempi, con la curiosità di chi sta scoprendo il mondo: «Perché?».

 

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