Il cancello del drago racconto di Adriana Aromolo

Il cancello del drago racconto di Adriana Aromolo

Adriana AromoloChi è Adriana Aromolo

Adriana Aromolo Castiglia vive fra Roma e Magliano in Toscana, un delizioso paesino in Maremma. Già docente di Lettere, ha scritto per la pagina culturale di quotidiani locali a Trieste e in Maremma. Per tre anni ha fatto parte della redazione romana della rivista Formazione e lavoro.

Ha fondato con la sua famiglia un’associazione culturale, Arti in corso, che ospita mostre ed eventi nella galleria d’arte maglianese.

A Roma, ha partecipato nel 2014 al Corso di scrittura narrativa e lettura analitica a cura di Valeria Viganò e nel 2015 al Laboratorio di scrittura attraverso i sensi a cura di Francesca Crisi.

Ha partecipato ai concorsi 2014 e 2015 banditi dalle Edizioni LeAli con due racconti che sono stati pubblicati nei volumi editi da questa Casa.

E’ l’autrice di questo bel racconto, Il cancello del drago, contenuto nella raccolta omonima.

Il libro

I racconti presenti in questa antologia sono il frutto del concorso letterario denominato Viaggi e…, indetto nel 2015, e si ispirano a viaggi reali o fantastici, intimisti o descrittivi, metaforici, mistici, culturali, sociali e surreali.
La caratteristica comune è l’esperienza del viaggio affrontata dagli Autori con riferimento ai tre diversi settori in cui si articolava il concorso: spiritualità, alimentazione particolare e alimentazione generale.
Lo slancio verso l’altrove, che ha caratterizzato la prima tappa del progetto Edizioni LeAli con il concorso indetto nel 2014, prosegue così verso un ambito più vasto in cui si tende a travalicare, e simultaneamente integrare, i limiti del proprio vissuto.

Gli Autori

Oltre ad Adriana Aromolo,
Mario Bicchi, Antonio Bini,
Bruno Bolognesi, Maria Stella Brancatisano,
Ennio Costantini, Iana De Muro, Serena Di Filippo,
Livio Gucciardo, Simone Masacarne, Ilaria Ottria,
Pietro Rava, Antonio Rossello,
Emma Rossi.

L’estratto

Entrò in lei una freschezza, qualcosa di simile alla gioia. Era la vita, con tutta la sua energia selvaggia, vibrante, dove coesistono senza strappi il male e il bene, la crudeltà e l’amorevolezza, e la morte stessa.

L’immagine di copertinail cancello del drago

ispirata alla leggenda cinese in cui si racconta di una carpa che, grazie alla fiducia, al coraggio e alla perseveranza, viene trasformata in un grande drago. Simboleggia il viaggio iniziatico dell’essere umano volto a utilizzare le avversità della vita anziché farsene soggiogare. L’illustrazione è stata realizzata da Trematiteunacanna (2016).

 

Il cancello del drago, racconto di Adriana Aromolo

Scozia, Highlands, agosto 2014.

«Accidenti a questo posto». Il pensiero divenne un borbottio e poi un urlo.
«Accidenti! È assurda la guida a sinistra. Pazzesca. Accidenti a me! Ad Alberto! Alla Scozia!».
La Yaris grigia della Hertz si infilò in una piazzola a sinistra della strada di campagna. Il parabrezza, rigato da sottili rivoli d’acqua, inquadrava un volto femminile, dai lineamenti graziosi e minuti, in un ovale alquanto affilato. Due mani si levarono dal volante a raccogliere bionde ciocche sfuggite dalla coda di capelli che si appoggiava sulla nuca e sul collo della donna, scendendo dentro al cappuccio del montgomery imbottito. «Mi sono vestita troppo, non fa tutto questo freddo, e sono in ritardo. Alberto mi aspettava a pranzo». Le capitava spesso di essere in ritardo, anche in chiesa l’aveva fatto aspettare, perduta nell’allaccio degli infiniti bottoncini del corpetto. Mara aprì il finestrino, respirò l’aria fresca e umida e si guardò intorno. Ai lati della strada partivano vaste ondulazioni di un verde deciso, smorzato negli avvallamenti dal viola spento dell’erica. Dietro, all’orizzonte, il profilo grigio scuro delle montagne e, più su, il cielo color perla. Il grigio azzurro sobrio e fermo fece bene a Mara. Proseguì in direzione di Pitlochry.

Erano quasi le quattro quando la macchina si fermò davanti a una piccola casa vittoriana a due piani, pail cancello del dragorzialmente coperta di edera. Sopra ai riquadri di vetro della porta, la scritta in oro e porpora: “Carra Beag – guest house”. Alberto uscì veloce e festoso, facendo tintinnare il campanello collegato alla vetrata.
«Solo un paio d’ore di ritardo… Fatti vedere dal tuo fu marito!».
Mara gli passò tutte e due i palmi sulla corta barba brizzolata che gli ricopriva le guance incavate.
«Non sei male, così».
«E questa ricrescita che significa, Mara? Ma a Roma non vai più dal parrucchiere?!».
Entrarono, un po’ abbracciati, un po’ ridendo, con un lieve lampo di imbarazzo quando gli sguardi si incontravano.
«E Rod non c’è?».
«Mi ha lasciato».
Un sottile tremito nella voce. Lo sguardo di Alberto sorvolò gli occhi sorpresi di Mara per fermarsi sulla cornice di pietra del caminetto.
«Perché non me l’hai detto?».
Mara respirò il disagio di Alberto e se ne fece contagiare.
«Anche tu avevi i tuoi problemi», si giustificò Alberto. «Non sei qui perché io ti ascolti e ti consoli? Dai, Mara, domani ti faccio una bella festa di compleanno». La forzatura del tono aveva dissolto il tremito.

Amici dall’adolescenza, si erano sostenuti nei primi drammi d’amore, lui con un ragazzo, un amico di lei, sfasato e inattendibile, lei con un uomo molto più vecchio. Si erano riconosciuti nelle qualità, ma anche nelle oscurità più profonde. Si erano abbracciati, con affetto e complicità, sposandosi per amicizia. L’ultimo anno della loro convivenza era stato una discesa negli abissi. Alberto si era affidato a una donna, Mara, come a una zattera per le sue angosce, ma la necessità di scegliere stava diventando sempre più imagesforte. L’amicizia di sua moglie non gli bastava, si sentiva in una gabbia che si era costruito da solo.

Tirava fuori dalla scontentezza che lo attanagliava una crudeltà volgare e rabbiosa, che non riconosceva come propria e che non risparmiava Mara, né se stesso. Il tipo di crudeltà curiosa dei ragazzini che li porta a tagliare la coda a una lucertola o a prendere a sassate il guscio di una tartaruga per vedere cosa c’è sotto. Nell’entropia creata da Alberto, Mara sembrava annientata. Non era così. Stava in bilico, adattandosi ai movimenti, come se fosse in piedi sulla piattaforma girevole fra due vagoni di un treno in corsa; provava, in fondo, l’inconfessato piacere di essere in balia di qualcuno. Alberto l’aveva sempre definita “una tosta” poiché, seppure delicata e insicura, nascondeva un nucleo resistente e oscuro, come il nocciolo in una pesca.

Talvolta, il veleno, celato nel piccolo ovale del frutto, toccava il cuore di Mara, i suoi pensieri, trasformandoli in parole che tagliavano come schegge di vetro. Poi era arrivata la fine, un grande strappo aveva lacerato il tessuto della loro unione, ma fili sottili erano rimasti a fluttuare. Alberto si era immerso, confuso e famelico, in un mondo che non era ancora il suo, ma che gli aderiva rapidamente. Tanti incontri sbagliati, fino a Rod, lo straniero, nella metropolitana di Roma; uno sguardo, un altro sguardo, non si erano persi più con gli occhi. Alberto aveva lasciato tutto e tutti e l’aveva seguito nelle Highlands, dove l’uomo aveva una locanda. Erano stati anni belli, ampi e pieni. La campagna per il referendum sull’indipendenza della Scozia aveva portato a Pitlochry un giovane uomo politico di Edimburgo.
«Bello, sai, Mara? Il genere che mi intriga. Ironico, intelligente, manipolatore, un fisico asciutto. Era piaciuto anche a Rod. Se ne sono andati via insieme. Ora io gli gestisco Carra Beag e gli mando la sua parte di ricavato».
Fra Alberto e Mara scese un silenzio contratto, solo un lungo sguardo malinconico e imbarazzato.

«Noi abbiamo qualcosa in comune, Alberto. Dicono che il karma non è acqua, è sangue vivo, e per noi scorre identico nelle vene. Tu e io stessi geni. Davide, come ti ho scritto, non si sentiva più coinvolto, trovava assurdo che io volessi un figlio alla mia età. 6a00d8341c684553ef0163061d83ad970d-300wiSarebbe venuto male, diceva. Non se la sentiva. Così se ne è andato».
Sedevano davanti a una zuppiera dipinta a rose antiche, con dentro un risotto colloso. Alberto aveva allungato una mano verso Mara in una rapida carezza.

Poi, nuovamente si erano rifugiati nell’abbraccio di un silenzio assorto. Si era aperto il cielo e dal bow window entrava la luce cristallina del pomeriggio estivo.
«Finisci, Mara, che ti porto in un bel posto. Ma sei ancora così lenta a mangiare!».
Cercavano di sorridere, di essere leggeri come due ragazzi, due compagni di scuola che non si vedevano da tanto tempo. Sguardi furtivi indagavano le piccole rughe ai lati della bocca e l’incavo più scuro che si stava formando sotto agli occhi.

il cancello del drago

A poche centinaia di metri dal paese di Pitlochry, con le sue case grigie e rosse, l’elegante nucleo vittoriano e il bel passeggio intarsiato di negozi per turisti, un parco terminava con la diga di un grazioso lago artificiale. Un sistema di vasche e chiuse, chiamato la scala dei salmoni, facilitava ai pesci, nel periodo della riproduzione, la risalita del fiume Tummel.
Alberto si chinò verso Mara, che, appoggiata al parapetto, stava guardando l’acqua vorticosa. «Qui i pesci vengono aiutati portandoli su in ascensore! Ricordi, invece, in Cina il Cancello del drago? Ci siamo andati insieme nel nostro viaggio di nozze».

Un debole sorriso si affacciò negli occhi di Mara: «Chilometri di strade di montagna perché ti eri fissato con il voler vedere la cascata della leggenda. Qual era la storia?».
«Ma non ricordi niente, Mara! Narrava di un gran numero di carpe che si raccolgono nel bacino sotto la cascata altissima, sperando di risalirla. La carpa che riuscirà nell’impresa si tramuterà in un drago, potente e immortale. Tutte saltano disperatamente. Alcune sono trascinate via dalle correnti, altre sono preda di aquile, falchi, nibbi, e altre infine vengono pescate con reti, cesti e frecce dagli uomini. Dopo anni e anni, solo una riuscirà a risalire la cascata e si trasformerà in un drago».
«O neppure quella», aggiunse Mara, concludendo il racconto con la sua personale versione.
«Positiva, eh!», scherzò Alberto.

Alcune panchine di legno erano poste a semicerchio nel prato, concluso dai salici che si bagnavano nel lago. All’ultimo sole del 50635880pomeriggio, sulle spalliere brillavano delle targhette di ottone con incisioni di nomi e date. Erano doni di familiari che avevano voluto dedicare la loro offerta alle persone care defunte, come avveniva un tempo per i banchi delle chiese.

Si sedettero. Mara si girò e lesse la scritta incisa: “Dorothy Brodie. 1968, Aug. 24th – 2013, Aug. 23th”. Sussultò. «La mia stessa data di nascita, tutto uguale, anno, mese, giorno! Ed è morta l’anno scorso, il giorno prima dei suoi quarantacinque anni!».
«Già! Era la moglie di Neil, una a posto, gente a posto. Emorragia cerebrale. Neil è diventato una pietra, lo trovi sempre nel pub, beve, non parla, se gli dici qualcosa, guarda il bicchiere. Ma adesso non ti fissare, Mara, che ti conosco! È una semplice coincidenza. Domani ti faccio una bella festa, con tanto di torta e candeline. Torniamo indietro; sta scendendo l’umidità».
Fu una cena breve, si dissero poche cose, in un’atmosfera di intimità, ma anche di sotterranea inquietudine. Dopo, sul grande divano di velluto grigio, di fronte al camino spento, si stesero in un silenzio confortevole. Mara cominciò a strusciarsi delicatamente ad Alberto.
«Piantala, Mara».
«Una volta funzionavamo».
«Poi ho scelto, lo sai. Mi faceva star male non avere un verso».
«Come le scarpe o i guanti? Almeno rimani a dormire con me. Mi tieni stretta, come si fa con i bambini quando hanno paura. Io ce l’ho un motivo per aver paura: la morta. Dorothy mi ha sconvolta».
«Nel tuo universo, tutto è segno, tutto deve, per forza, significare qualcosa. Presagi, presentimenti, messaggi nascosti. Pigliati le tue pastiglie e dormi, senza sogni! Buona notte, Mara, stai serena».

Mara salì nella sua camera, si tolse gli stivali e si stese sul letto, vestita. In fondo alla stanza filtravano riquadri di luce giallognola. Sulle tre vetrate del bow window non erano state tese le pesanti tende di velluto color rubino. Per anni le era sembrato di poter far fronte a tutto, cavalcando ogni difficoltà, e nei momenti cruciali tirava fuori grinta e forza insospettabili. Ora era stanca. Le pareva che la sua infelicità confluisse in quella di Alberto e del marito di Dorothy, diventando un largo fiume fangoso che travolgeva il mondo intero. Si rialzò, indossò il cappotto, infilò gli stivali e uscì. La pioggia sottile era un fumo che sembrava levarsi dal terreno. Ritrovò la panchina e si sedette, rimanendo a lungo immobile, con il volto senza espressione.

il cancello del drago

All’improvviso, dal nero fuligginoso emerse una forma poderosa. Un magnifico esemplare di cervo, illuminato dalla luce dei lampioni, si fermò a un passo da lei. Enorme e regale il palco di corna ramificate, largo il collo muscoloso, lucido nella pioggia il pelo rossiccio. Si girò verso di lei e la guardò con calma e fierezza. Mara respirò profondamente e ricambiò lo sguardo dell’animale. Due esseri viventi, naturali, esistevano solo loro due, vuoti di pensieri. Entrò in lei una freschezza, qualcosa di simile alla gioia. Era la vita, con tutta la sua energia selvaggia, vibrante, dove coesistono senza strappi il male e il bene, la crudeltà e l’amorevolezza, e la morte stessa. Il cervo batté uno zoccolo, si girò e tornò nel buio.

Mara si accorse che stava sorridendo. Si girò su se stessa e accarezzò con la mano umida di pioggia la spalliera della panchina e la targhetta di ottone. Lunghi respiri le sciolsero dentro una dolcezza sconosciuta. Due mani le si posarono delicatamente sulle spalle.
«Alberto! Ma come facevi a sapere che stavo qui?».
«Ero o non ero tuo marito?».

Si guardarono. Lentamente una risata sgorgò, appena accennata, diventando via via forte e libera.
«Tornatene a Roma, Mara. Trovati il laghetto, la cascata e diventa un drago. In fondo lo sei già. Immortale e potente».coppia-cammina
«E tu che farai?».
«Tornerò anch’io. Alla prima neve, chiudo tutto e vengo giù».
Si alzarono infreddoliti. Alberto la riparò con l’ombrello e lei lo prese sottobraccio. Avanzarono lentamente per il vialetto che costeggiava il parco. Si fermarono. In lontananza, nel boschetto, sotto il giallo acido dei lampioni, il poderoso dorso del cervo riluceva. Mara si strinse al braccio di lui, che le sorrise. Ripresero a camminare.

Condividi:

Post correlati

Poesia ed economia: L’Ora del Mondo

Poesia ed economia: L’Ora del Mondo


Poesia ed economia: L’Ora del Mondo

L’Ora del Mondo di Marco Amore (2023, Samuele Editore) Chi è Marco Amore Marco Amore (Benevento, 1991) è uno scrittore attivo nel mondo dell’arte contemporanea, sia in Italia che all'estero. Dal 2013 svolge il ruolo di curatore indipendente per istituzioni pubbliche e private...

“La medicina dei piccoli mammiferi” di Cinzia Ciarmatori

"La medicina dei piccoli mammiferi" di Cinzia Ciarmatori


"La medicina dei piccoli mammiferi" di Cinzia Ciarmatori

La medicina dei piccoli mammiferi di Cinzia Ciarmatori (2022, EbookECM) Chi è Cinzia Ciarmatori Medico veterinario, si occupa da vent’anni di piccoli mammiferi, ma anche di rettili, uccelli, anfibi, Insetti oltre a cani e gatti. Lo fa mettendo insieme la sua passione per la...

“Il Signore di Notte” un giallo nella Venezia del 1605

"Il Signore di Notte" un giallo nella Venezia del 1605


"Il Signore di Notte" un giallo nella Venezia del 1605

Chi è Gustavo Vitali Nasce a Milano il 4 agosto. "Tralascio l’anno perché su questo argomento sono un tantino riluttante. La foto, non recentissima a corredo dovrebbe lasciare intuire il secolo..." dice, sottolineando che il bambino nella foto è veramente lui.   Si trasferisce...

Lascia un commento