Il pugile e l’ubriacone, intervista all’autore

Il pugile e l’ubriacone, intervista all’autore

Emily Dickinson (Johanna Goodman)

Emily Dickinson (Johanna Goodman)

“Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere”.
E’ così, con questa citazione di Emily Dickinson, che inizia Il pugile e l’ubriacone, romanzo firmato Damiano Lomolino.

 

Il fatto che l’autore abbia sentito l’esigenza di riportare le parole della grande poetessa dalle tradizioni puritane è significativo anche se in questa storia, all’apparenza, non vi è nulla che possa riportare ai travagli interiori, soprattutto religiosi, della sensibile Emily.

 

Una vicenda, quella narrata da Lomolino, che già dal modo con la quale è scritta, al presente in prima persona e senza fronzoli o giri di parole, azzera la distanza fra il personaggio principale, che spadroneggia tra le pagine, e l’autore, risucchiando il lettore in maniera tutt’altro che delicata.

 

L’autore ha voluto mettere subito le cose in chiaro sin dal sottotitolo del primo capitolo: “Non mi facevo una risata di gusto da non so quanti anni e non mi facevo una sega da troppi giorni”, quasi ad avvertite il lettore di come sarà ciò che andrà a leggere.
Ma al di là di ciò che vuol sembrare, Lomolino mostra, attraverso il personaggio principale, tutte le sue fragilità.

 

Un alter ego camuffato, e neppure tanto, che ostenta indifferenza nei confronti dei valori morali e sociali, passando dal sesso esplicito e ripetuto, al sarcasmo e arrivando fino al disprezzo.E’ in questa ottica che va interpretato e metabolizzato il romanzo, perchè soltanto chi saprà leggere tra le righe riuscirà ad intraverderne la parte più nascosta e vera, quella fatta di paure, malinconie, tenerezza e commozione ed allora sì che ogni parola comincerà a splendere…

 

Se tu avessi soltanto tre aggettivi per descriverti (come persona) ai nostri lettori, quali utilizzeresti?

Intollerante, disincantato, variegato… e così t’ho fregata.

Chi scrive e pubblica, lo fa per veicolare qualcosa di personale verso altri, altrimenti terrebbe un diario ben nascosto in fondo ad un cassetto. Tu perché lo hai fatto?

Probabilmente perché ho troppo tempo libero e non mi piacciono le serie TV

Con quale genere letterario definiresti Il pugile e l’ubriacone?

Preferisco il non definire. Non sono mai stato un amante delle categorie, delle etichette, che prudono sulla cervice, che Damiano Lomolinocircoscrivono e determinano, ma non risolvono. Guarda che casino hanno fatto con il rock: hard rock, indie rock, gothic rock, garage rock, noise rock (una indefinibile cagata, appunto), e chissà quanti altri che non mi sovvengono.
Mi sono fatto un giretto sui vari canali di distribuzione digitale e in alcuni di essi il mio libro è stato inserito addirittura nella categoria “saggistica”! Siamo alla follia più scintillante. Probabilmente (e questo lo dico solo per orientare coloro i quali vorrebbero e magari dovrebbero starne alla larga dal pugile e l’ubriacone), chi ama etichette e categorie, questo libro lo ammasserebbe nel calderone del realismo sporco, per il linguaggio crudo, ma in tutta onestà, quella definizione non rende giustizia a un bel niente e, nel mio caso, identifica appena una parte, neanche del libro stesso, ma solo del modo in cui vengono descritti alcuni avvenimenti. I generi servono alla gente a far fiutare cosa potrebbe esser loro sgradito, piuttosto che il contrario.

Scuotere i sentimenti più profondi dell’animo e della psiche di chi legge, è questa la tua intenzione? E, se si, perché?

Non ho intenzioni verso nessuno, trovo molto più appagante scuotere i tappetini della macchina e guardare la polvere che svolacchia via. Sentimenti, animo, psiche… non mi dirai che c’è tutta ‘sta roba da scuotere, lì fuori.

La scrittura in prima persona crea una forte intensità emotiva sviluppando un vero e proprio legame tra il personaggio e il lettore stesso. E’ stata una precisa scelta tecnica oppure un caso?

Ho iniziato a scrivere descrivendo quello che mi stava capitando in quel periodo, senza troppa fantasia; non sarebbe mai potuto essere qualcosa di diverso dalla prima persona.

La narrazione è ricca di riferimenti colti, soprattutto pittori più o meno noti surrealisti e moderni. Che tipo di istruzione hai avuto? Sei appassionato di arte?

Ho frequentato il liceo artistico, entrandoci convinto di voler fare il fumettista, uscendone che ne sapevo di più sul ping pong e il Kurt Cobain, ma a quattordici anni si è deficienti almeno il doppio di quanto ci si possa credere dritti. Ma va bene così, alla fine imbratto ugualmente i fogli, solo in maniera diversa da come m’aspettavo di fare da adolescente. Fondamentalmente storia dell’arte e anatomia credo fossero le uniche due materie che seguivo con interesse, quando non ero intento a estromettermi dall’ambiente per delirare finzioni su una ragazza a cui ovviamente non sarei mai potuto piacere. Ma mi richiamò qualche anno fa, in preda a crisi esistenziali, dicendomi d’esser conscia di aver perso un’occasione. Queste sono soddisfazioni che ogni uomo dovrebbe provare!

Théodore Géricault autoritratto

Théodore Géricault autoritratto

Fra gli altri, tu citi il pittore Théodore Géricault, prototipo dell’artista romantico: amorale e asociale, disperato e maledetto, genio e sregolatezza. Ci sono dei punti di contatto tra la sua arte e la tua visione del mondo e della vita?

Mettiamola così: ci sono in me sicuramente molti più punti di contatto con Gericault che con Andy Warhol, e con la gente che preferisce Gericault a Warhol. Sono certo che “il pugile e l’ubriacone” sarebbe piaciuto a Theodore, nella stessa misura in cui avrebbe fatto schifo a Warhol.

Credi che la pazzia e la sofferenza, connesse al genio ovviamente, possano portare al massimo della creatività?

Penso che la pazzia e la sofferenza possano portare a quella creatività che suscita il mio interesse. Il mondo ribolle di gente che scrive e ha una vita stupendamente felice, che scrive NONOSTANTE la sua vita stupendamente felice. Non so cosa scrivano, ma il vellichio di interessarmene non mi sfiora.
Per quanto riguarda il genio, Dalì diceva una cosa saggia quando differenziava l’artista dal genio. L’artista, diceva, ha bisogno di sofferenza, solitudine, caos, follia, per tirar fuori i fiori dalla merda (tanto per citare qualcun altro), mentre il genio non ha bisogno di nulla di tutto questo, crea e basta, e lo fa meglio di tutti, che sia in procinto di suicidarsi o di andare a comprare un gelato. Ecco, Dalì, diceva questa tiritera un po’ a tutti quelli che gli capitavano a tiro a cui ovviamente dava dell’artista e lui era invece il genio. Ma sostanzialmente mi trova d’accordo.

Cosa ti aspetti da questo romanzo, oltre naturalmente che sia acquistato?

Che lo legga qualcuno delle grandi case editrici, venga tradotto in una decina di lingue, ne venga fatto un film, e io possa finalmente comprare una Bentley.

Ti sei fatto un’idea di chi potrebbe non soltanto comprare, ma anche leggere e magari apprezzare questa

Tom Waits

Tom Waits

storia?

Gericalut, ovviamente, ma aspetto di portarglielo quando tirerò le cuoia. Credimi se ti dico che non mi frega nulla degli apprezzamenti, lo comprassero e poi lo mettessero far da lettiera al gatto. Laddove venissi troppo apprezzato capirei di aver scritto trecento pagine di aria viziata buona per tutti. L’apprezzamento, il riconoscimento, il premio: l’insolenza più grave che si possa tributare all’artista, l’oltraggio.

Se tu dovessi scegliere un supporto sonoro per questa storia, quale musica o canzone sceglieresti?

Bella domanda, ma ci sono talmente tante situazioni e personaggi strambi… dubito che una singola canzone possa bearsi della soddisfazione di abbracciare tutti quanti. Quindi ti dirò qualche titolo che, per qualche situazione, ci starebbe fin troppo bene: un paio di Tom Waits calzerebbero a più di una situazione, ma anche Franco Califano e certamente qualcuno dei capricci di Paganini, che ascoltavo mentre scrivevo e trovavo che si sposassero meravigliosamente con le atmosfere che stavo descrivendo.

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