La porta di Anne, un supporto per ricordare

La porta di Anne, un supporto per ricordare

 

Guja Risari

Guja Risari

Guia Risari, nasce a Milano, scrittrice, poetessa, filosofa, formatrice e giornalista per il quotidiano “L’Unità”.

 

Nel 1997 consegue un Master presso la Modern Jewish Studies alla Leeds University, portando una tesi sull’antisemitismo in Italia. Poco dopo si trasferisce in terra francese dove, oltre a scrivere, insegna lingue svolgendo ricerche socio-critiche, sulla storia, sulla letteratura orale legata al doppio filo delle migrazioni.

 

Traduttrice di saggi, poesie e romanzi dal francese, inglese, spagnolo per la Feltrinelli, Longanesi, WhiteStar  e altre case editrici. Autrice di numerose opere letterarie, vincitrice di numerosi premi sia in Italia che in Francia.

 

Tra le ultime novità, vi segnaliamo l’interessantissimo romanzo La porta di Anne (Mondadori) finalista al Premio letteratura ragazzi di Cento 2016, Il viaggio di Lea (Einaudi Ragazzi), finalista Premio Strega ragazzi e ragazze 2016, Categoria +11  e Gli amici del fiume (San Paolo)

 

Per maggiori informazioni sull’autrice clicca qui

Un romanzo molto particolare, come abbiamo detto,  è La porta di Anne, frutto di un lavoro di ricerca davvero certosino.

La vicenda ( purtroppo nota) narra la vita di otto persone di religione ebraica, tre uomini, due donne, due ragazzine e una ragazza, che per oltre due anni sfuggono agli occhi del mondo, in un appartamento ad Amsterdam, per sottrarsi alle barbare persecuzioni antisemite.

Ringraziamo Fausto Bailo che l’ha intervistata per noi e la Premiata Libreria Marconi di Bra (Cn) che, come sempre, ha collaborato fattivamente.

Quando è nato il progetto La porta di Anne?La porta di Anne

Il progetto è nato su una richiesta precisa, dell’editor Marta Mazza della Mondadori, nel lontanissimo aprile 2014. Ci ho pensato su – perché non è facile, né divertente, non dimenticare senza scadere in facili trappole politiche o ideologie preconfezionate. Ho tenuto conto, da filosofa morale di scuola esistenzialista, l’imperativo kantiano, l’insegnamento di Franco Fergnani e le mie ricerche sulla nozione di risentimento nella filosofia occidentale.

 

I più curiosi possono trovare materiale sull’aromento visitando la sezione Libri del mio sito.

 

Comunque, ho attinto al patrimonio di ricerche specializzate sull’uso del linguaggio “sospetto”: ovvero le ricerche di socio-critica, socio-linguistica e letterature comparate cosiddette “post-coloniali”. Poi ho compiuto una serie di ricerche bibliografiche piuttosto esaustiva sui diari di Anne (le varie versioni e tutti i libri disponibili sull’argomento). Ho lasciato macerare, segnato qualche appunto su un ordinatissimo quaderno nero e, dopo aver buttato giù lo schema narrativo, scritto capitolo dopo capitolo.

Stampato ogni capitolo, letto ad alta voce, corretto, ribattuto, corretto, apportato modifiche, ribattuto, controllato, ricontrollato e ribattuto. Quando finalmente era impossibile per me rileggere ad alta voce il libro senza piangere, è stato un segno. Il segno. Voleva dire, vuol dire che il libro era davvero finito. E tuttora ci sono parti che non posso leggere senza piangere. Ma mi sembra giusto così: in fin dei conti, non sto – ahimè – raccontando una storiella… Per farla breve, comunque, per ricostruire il tono di ogni personaggio, ho fatto schede personali (psicologiche e storiche), contattato archivi ed esperti. Ho infine attinto soprattutto dall’esperienza diretta delle mie e altrui migrazioni di cui sono stata testimone diretta e indiretta.

Ho infine tenuto conto del fatto che l’imperativi di ricordare – Zakhòr – non deve riguardare qualcuno soltanto, perché uno sterminio di massa è un fatto collettivo, che coinvolge tutti. Una responsabilità morale, civile, etica, psicologica e, in ultima istanza, ma solo in ultima istanza, politica. Altrimenti, non avrei accettato di lavorare a questo progetto.

Karl Josef Silberbauer

Karl Josef Silberbauer

Il personaggio del sottufficiale Karl Josef Silberbauer, possiamo definirlo un Virgilio senza coscienza?

Direi proprio di no. Virgilio era un poeta. Silberbauer un piccolo mostro idiota. Senza coscienza, sì, come tanti piccoli mostri idioti che – al giorno d’oggi – stampigliano un documento, usando senza attenzione i mezzi di comunicazione o i timbri della collettività, ripetendo slogan e determinando così la condanna di altri. Senza coscienza.

 

Era e resta il personaggio più inquietante, più problematico e per questo era giusto – direi essenziale – lasciargli lo stesso spazio di apertura e di chiusura del libro che agli personaggi. Per porre a noi e a tutti la domanda sulla natura del male. Il male è così tanto lontano? Noi siamo tanto migliori? Come ci laviamo, ci vestiamo e ci “docciamo” via le cattive notizie dei cosiddetti “altri”? O “altre”?

Quanto è stato difficile narrare le speranze, le paure dei coinquilini di Anna Frank?

Tanto difficile che – come ho detto in altri contesti ad alcuni intimi e agli editori che si ostinano a farmi lavorare su temi tristi – ho dovuto correggere la mia immedesimazione con cioccolata, giri in canoa, camminate, letture di fumetti o gialli, ore in balcone al sole, una bella sospirata, una bevuta di caffè (poco), tanto tè e molta d’acqua per dimenticare (temporaneamente) quel che stavo ri-vivendo.

Sempre comunque a redigere con un taccuino, gli occhi, un corpo sano che reagisce al dolore, anche della redazione, come può: muovendosi. Tanto più che in quel periodo ho comunque cambiato casa e quindi ho fatto molta attenzione a non perdere i fogli dattiloscritti e corretti da me a mano e infine ritrascritti sulle bozze finali che mi arrivavano dall’editore.

Solo quando queste bozze sono diventate un libro, ho buttato i fogli con le correzioni. Ma mi resta il quaderno nero con gli appunti bibliografici e lo schema di lavoro. Insomma, l’essenziale. Poi il libro che è stato dato alle stampe e messo in una bellissima collana nel luglio del 2015. Nel 2016, è stato ristampato come classico (quindi in formato più maneggevole ed economico per il lettore). E soprattutto la mia soddisfazione è stata vedere come le donne e gli uomini che ho incontrato su questo libro al Festival Monte Librić (nel giugno 2016) e sapere che ce ne sono tanti altri che decidono di selezionare il libro (cioè il tema e lo stile; forse anche il tono così sciolto e intimo) nella terzina dei finalisti del  Premio cento ragazze e ragazzi Questo femminile prima dei ragazzi non è un caso e mi sembra un atto di coraggio nel nostro paese un po’ arretrato. Non vincerò, ma almeno le donne e gli uomini hanno scelto liberamente. Non è poco.

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Questo suo libro tocca dei tempi molto importanti in una società civile, la libertà individuale, le passioni. C’è il rischio di ricadere nel baratro della stupidità collettiva?

Il rischio è sempre lì: sta davvero a ognuno di noi non caderci. Ma evitarlo e tirarsi fuori. Poi questo lavoro individuale, personale, può, dovrebbe diventare collettivo. E non comunitario. Ma collettivo, in ultima istanza, ovvero è una bella utopia, cui tendere.

Secondo lei, è fondato il rischio della perdita della memoria storica di avvenimenti tragici accaduti appena settant’anni fa?

Direi che io non parlo mai di politica: no? Sono solo una scrittrice, una filosofa, una persona attenta al linguaggio. Esercito il mio mestiere – che è andare in giro, fare foto, articoli, ascoltare le notizie, se posso in quattro lingue da circa venticinque anni. Scrivo e ascolto tanto, leggo e cerco di capire tanto. Cerco soprattutto di mantenere dei ritmi di lavoro umani e con date e scadenze dettate dagli altri e una vita ballerina, tra un paese e l’altro. Il mio ritmo è proprio dettato dal riuscire sempre e comunque, ad ascoltare le notizie. Se non posso, almeno in una lingua e sempre comunque alla radio. La voce, per me, e gli orari sono importanti. Poi, ascoltando bene la radio e leggendo qualche articolo di qui, qualche articolo di là, direi proprio che il rischio di perdere la memoria non c’è.

Ma non vorrei certo esprimermi su temi importanti come la politica, l’economia, la società, i costumi, la religione, la psicologia, l’etica, la morale. Questo no. Non posso. Non sono qualificata. Ho già scritto. Non vorrei quindi esprimermi più di così. Come ripeto in questo periodo – con l’ironia di chi ha solo occhi, orecchie e mani e – io non vedo, non sento, non parlo. Scrivo soltanto e penso. Quindi non so.

Possiamo definire La porta di Anne un diario per non dimenticare?

C’è questo rischio: definirlo un diario per non dimenticare. In realtà, è un supporto per ricordare moralmente e collettivamente. Un libro da comprare, se ci si sente pronti ad attraversare l’inferno attraverso un’immersione nell’Alloggio Segreto, nelle stanze, nelle vite, nelle speranze degli altri, che poi non sono tanto lontani, ma molto molto vicini. Ma non sta a me fare l’elogio del mio libro.

L’ho già scritto e non posso giudicarlo. Per questo rimando alla pagina dedicata alle recensioni e agli incontri sul libro:
Quel che posso fare è indicare la mia parte preferita, così come un caro amico lettore – Delio Simonič – un critico di prim’ordine nelle questioni di lingua e di contenuti, me l’ha indicata autonomamente nel dicembre 2016. E non sapeva che era anche la mia parte preferita: l’ultima frase aggiunta sul mio quaderno di scrittura, un’idea dell’ultimo minuto prima di consegnare il manoscritto e traslocare nel luglio del 2014. Eccola!

Anne sentì il naso pizzicarle forte, come tutte le volte in cui aveva voglia di piangere. Ma aveva un ottimo sistema per

Anne e Margot Frank

Anne e Margot Frank

ricacciare indietro le lacrime.  Era la canzoncina cinese di Pim. Ogni tanto, lei e Margot se la cantavano e finivano ridendo. Era irresistibile. Faceva così:

Yo, di-vi-di-vo,

di-vi-di, vaya, cas-vaya, cas-co,

di-vi-di-vo, di-vi-di, vich-vich-vich-vo.

E c’era pure il ritornello:

Yin-yang, Yin-yang, voc-cai-da-vichchi,

Yang-cai, vi-di-vi, yang-cai, di-vi-di,

Yin-yang, Yin-yang, voc-cai-da-vichchi,

Yang-cai, vi-di-vi, aya!

Anche stavolta la canzoncina di Pin funzionò. Anne rise fino alle lacrime.  Ora che la spessa nebbia di tristezza si era dissipata, lo vedeva anche lei: sì, cambiare era possibile e no, non c’era niente di male a riconoscere di aver sbagliato. Come diceva Pin, le persone buone e quelle cattive hanno una cosa in comune: commettono tutte degli errori. Ma le buone sanno riconoscerli, parlarne con gli altri e trarne una lezione.

Lascio ai lettori, leggere questo frammento e trovare la pagina giusta! E ai bravi intervistatori!

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