‘Samurai’: ce ne parla Francesco Dei
SAMURAI. La Guerra dell’anno del drago
La fine dello shogunato e la restaurazione Meiji
di Francesco Dei
(Diarkos editore, 2024)
La figura del samurai, scomparsa insieme al Giappone feudale, continua a vivere nell’immaginario collettivo di tutto il mondo, spesso tuttavia attraverso ricostruzioni generiche e folkloristiche. Questo saggio, in cui Francesco Dei ha attinto da fonti nipponiche, vuole andare oltre, raccontando lo scontro di questa casta guerriera con la modernità.
Con grande piacere abbiamo intervistato l’autore che ce ne parlerà più approfonditamente.
Francesco Dei (Siena, 1975), vive a Roma. Laureato in Scienza politiche, si è specializzato in Storia e cultura dell’Estremo oriente e in Storia e cultura della Russia e dell’Europa slava. Ricercatore di storia militare e collezionista di reperti, ha pubblicato numerosi testi sugli argomenti.
Come nasce la sua passione per la storia e questa in particolare?
Indubbiamente, alcuni film di Kurosawa, come Ran, Kagemusha e Il trono di sangue, visti durante la mia adolescenza, mi hanno profondamente influenzato. Devo ammettere, però, che anche i videogiochi e i wargame hanno contribuito al mio interesse per la storia dei samurai.
Queste opere, sia cinematografiche che ludiche, sono ambientate perlopiù nel periodo degli stati combattenti (Sengoku jidai, 1467-1615), un’epoca caratterizzata da molteplici famiglie di samurai, che si contendevano il potere con intrighi e battaglie, ognuna con i propri eserciti e stemmi distintivi dall’aspetto così esotico e suggestivo. Per intenderci, un po’ come un Trono di Spade con decine di protagonisti e migliaia di comparse. Ognuno, ovviamente, può appassionarsi al personaggio che preferisce. Così, quando dovetti scegliere un argomento per la tesi di laurea che rispecchiasse le mie passioni, trovai nel mio professore di Storia dei Paesi Afroasiatici il supporto per scrivere proprio su questo tema.
La tesi, intitolata L’ascesa al potere di Tokugawa Ieyasu, divenne poi il mio primo libro, Il sole e il ciliegio, successivamente ripubblicato e ampliato con il titolo Storia dei Samurai: cronaca dal periodo degli stati combattenti. Con il mio ultimo lavoro ho voluto invece esaminare uno dei capitoli conclusivi della loro storia: la fine del governo dei samurai.
Per quale motivo i samurai continuano a vivere nell’immaginario collettivo di tutto il mondo?
Probabilmente, la risposta risiede nei valori che l’immaginario collettivo attribuisce loro, sebbene la realtà storica fosse spesso più complessa. Pensiamo ai concetti di onore e sacrificio presenti nel bushido (la dottrina del samurai). D’altronde, lo stesso termine samurai deriva da saburai, che significa appunto colui che serve. La similitudine tra cavaliere europeo e samurai sembrerebbe quindi notevole.
Ma a differenza dei cavalieri medievali, la cui influenza si concentra in un periodo storico più definito, i samurai sono stati una forza trainante del Giappone per secoli, fino al 1868, condizionandone profondamente la politica, la società e la cultura e lasciando un segno indelebile nella storia. Non da ultimo, l’iconografia, la rappresentazione mediatica e la cultura pop attraggono costantemente nuovi appassionati.
In conclusione, la duratura fascinazione per i samurai deriva da una combinazione di fattori: l’idealizzazione dei loro codici morali, l’esotismo della cultura giapponese, la loro lunga e significativa presenza nella storia del Giappone e la potente rappresentazione mediatica, che li ha trasformati in icone globali.
Perchè sono scomparsi?
Nel mio ultimo libro ho affrontato proprio questo tema: anzitutto, si deve precisare che la dissoluzione del governo dei samurai, guidato dallo shogun, non coincise con l’immediata scomparsa della classe guerriera. I samurai, infatti, conservarono una posizione di rilievo nel panorama politico degli anni immediatamente successivi alla Restaurazione Imperiale del 1868.
Ciononostante, tale evento storico innescò un graduale conflitto tra la persistenza delle secolari tradizioni samurai, i relativi costi di mantenimento, e la necessità di costruire un Giappone moderno. Innanzitutto, fu abolito il sistema feudale (1869), che garantiva ai samurai enormi privilegi, come terre e rendite.
Questo decretò la fine dei samurai come classe sociale, sebbene molti ne conservassero inizialmente alcuni aspetti distintivi esteriori, come il diritto di portare le spade, la tipica acconciatura chonmage (la crocchia) e l’abbigliamento tradizionale. Successivamente, con l’introduzione della coscrizione militare universale (1872), che rendeva obbligatorio il servizio militare per tutti i cittadini, la massa dei samurai fu estromessa dal suo ruolo di classe guerriera, sostituita da elementi provenienti da altre classi sociali.
L’ultimo colpo sferrato dal governo imperiale fu quello di eliminarne i simboli. Infatti dapprima venne proibito ai samurai di portare i capelli acconciati secondo il costume tradizionale, con il chomage, nel 1876 – con l’editto Haito – fu abolito anche il diritto di portare la spada, cosa che pose definitivamente fine all’immaginario del samurai. Alcuni samurai si ribellarono a queste nuove disposizioni, aprendo la strada alla prossima domanda.
L’ultimo samurai. Qual è stato?
La domanda rimanda a un film molto conosciuto con Tom Cruise: L’Ultimo Samurai. La pellicola ci presenta due figure centrali: un samurai e un capitano americano. Ma quanto c’è di vero nella storia raccontata? E a chi si ispirano realmente questi personaggi? Il samurai del film trae una vaga ispirazione da una figura storica realmente esistita: Saigō Takamori, un personaggio complesso e controverso.
Saigō fu uno dei protagonisti della guerra civile giapponese del 1868 (la guerra Boshin), ma, contrariamente a quanto si potrebbe pensare vedendo il film, combatteva dalla parte dell’Imperatore, contro il governo dei samurai dello shogun. Dopo la guerra, Saigō si ritirò nella sua terra natia a Kagoshima, capitale del dominio di Satsuma.
Lì, in un gesto che potremo interpretare come una forma di resistenza culturale alle politiche del governo centrale volte a sopprimere l’identità della casta guerriera, fondò scuole per giovani samurai. Queste divennero centri di aggregazione per coloro che volevano preservare i valori tradizionali dei loro avi. In un clima di crescente tensione, i suoi giovani seguaci, spinti dalla lealtà verso questi valori e dall’opposizione alle riforme governative (come il divieto di portare le spade, il simbolo dei samurai), presero le armi, attaccando gli arsenali imperiali e dando inizio alla ribellione di Satsuma nel 1877.
Saigō, inizialmente riluttante a guidare una rivolta contro il governo che aveva contribuito a creare, si trovò di fronte al fatto compiuto e, sentendosi responsabile del destino dei suoi seguaci e dei valori che essi rappresentavano, accettò infine di guidare la ribellione. Questo paradosso lo rende una figura tragica: un uomo che aveva contribuito alla fine del vecchio ordine feudale dello shogunato, ma che poi divenne il simbolo della resistenza contro la modernizzazione e la perdita dell’identità samurai.
La sua morte, con il suicidio rituale (seppuku) dopo la sconfitta nella battaglia di Shiroyama, contribuì a mitizzarne la figura, rendendolo l’ultimo samurai per antonomasia.
Ora, passiamo al personaggio di Tom Cruise. Qui la finzione si discosta molto dalla realtà storica di Saigō. Per creare il capitano americano, il film si ispira a un ufficiale francese realmente esistito: Jules Brunet. Ma c’è un’enorme differenza: Brunet, durante la guerra Boshin, si schierò dalla parte opposta rispetto a Saigō, ovvero a fianco dei samurai dello shogunato Tokugawa, i difensori del vecchio ordine!
Brunet fu, di fatto, l’ultimo europeo a sostenere la causa dei samurai. Quindi il film, pur essendo una magistrale opera, inverte completamente le posizioni storiche.
Quale insegnamento si può trarre dalla loro cultura?
È fondamentale distinguere tra la cultura samurai, ovvero la sua teoria e i suoi ideali, e le debolezze intrinseche alla natura umana. I samurai erano innanzitutto uomini, con tutte le virtù e le fragilità che ciò comporta. Pertanto, nella loro storia troviamo esempi di grande valore, ma anche di comportamenti discutibili, proprio come in qualsiasi altra classe sociale o gruppo umano.
La dottrina samurai, espressa nel Bushido (e successivamente codificata in testi come l’Hagakure), esalta valori quali onore, rispetto, ricerca del perfezionamento, senso del dovere e una costante consapevolezza della morte. Questi concetti, ovviamente, hanno perso gran parte del loro appeal nella società contemporanea e, come testimoniano diverse fonti storiche, non erano universalmente incarnati da tutti i samurai. Sarebbe un errore dipingere un quadro idilliaco e uniforme di questa classe guerriera.
Tuttavia, reinterpretare la dottrina samurai in chiave moderna può rivelare una sorprendente attualità e offrire spunti applicabili a diversi ambiti della vita, dal lavoro alle relazioni personali. Concetti apparentemente semplici, come l’impegno costante per il miglioramento di sé, la lealtà verso i propri ideali e il rispetto per gli altri, possono fornire una solida guida nel quotidiano.
Un esempio significativo, e uno dei miei preferiti, sta nell’aforisma: Non esiste la parola fine e chi si ritiene completo, in realtà, ha voltato le spalle alla Via. Questo concetto, che possiamo ricollegare all’idea di kaizen (miglioramento continuo) nella cultura giapponese, ci invita a non accontentarci mai dei risultati raggiunti, ma a cercare costantemente di migliorarci, di apprendere nuove competenze e di evolvere come individui.
Intervista a cura di Dianora Tinti, giornalista e scrittrice