Straordinario esordio per Emanuele Altissimo

Straordinario esordio per Emanuele Altissimo

Straordinario esordio per lo scrittore torinese Emanuele Altissimo che da pochi giorni ha pubblIcato il suo primo romanzo Luce rubata al giorno (Bompiani). Un libro straordinario che consigliamo senza esitazione.

 

Ringraziamo Fausto Bailo e laPremiata Libreria Marconi di Bra (Cn) per aver reso possibile questa intervista.

Quali sono stai i suoi scrittori di riferimento?

“Sono cresciuto leggendo Dostoevskij, lo scrittore che considero il mio padre spirituale, ma poi ho conosciuto David Foster Wallace e tutto si è complicato. Ora come ora, in me convivono due letture opposte: ci sono i romanzi fiume, le cosiddette opere mondo, che leggo e rileggo.

Penso a libri come L’Arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon, Le perizie, di Gaddis, Infinite Jest e Underworld. Romanzi massimalisti e robusti su cui torno di continuo. E poi ci sono libri inclassificabili che ti segnano per sempre: uno su tutti, Il cielo è dei violenti di Flannery O’Connor. Una scrittrice a cui penso di continuo insieme a Raymond Carver e Amy Hempel“.

Come è avvenuto il suo incontro con Bompiani?

“Attraverso la mia agente, che aveva mandato il manoscritto alla loro redazione. C’era un’asta in corso, diversi editori erano interessati al libro, ma ho scelto Bompiani dopo avere conosciuto Giulia Ichino e Antonio Franchini. Due persone stupende, di cui mi sono innamorato fin dal primo istante”.

Quale è stata la scintilla che l’ha portata a scrivere Luce rubata al giorno?

Emanuele Altissimo

Mi piace chiamarlo il click. È successo dopo avere ascoltato una lezione della figlia di Renzo Piano alla Scuola Holden. Era venuta a parlarci degli errori nelle strutture, di come i crolli siano dovuti alle persone, più che ai calcoli matematici.

 

Questa idea e poi quella della ridondanza intrinseca – la capacità di assorbire gli urti – ha scatenato la domanda tematica del romanzo: qual è la tensione ammissibile per l’amore che unisce una famiglia?

Quanto è stato complesso scrivere un romanzo dove si toccano temi come la sofferenza, la malattia, ma allo stesso tempo la necessità di diventare adulti?

“La parte difficile, come sempre, è quella in cui prendo distanza da cose che ho vissuto in prima persona. Tutto questo è successo in fase di riscrittura, quando ho ripensato il romanzo nella sua interezza.

 

E ho deciso di raccontare senza maschere un evento doloroso, per certi versi ancora vicino alla mia vita. La difficoltà è sempre quella di essere sinceri, soprattutto con se stessi: in questo senso la scrittura ti frega, è una cassa di risonanza a cui è difficile sottrarsi”.

Come è nata l’idea di omaggiare l’Empire State Building nel suo romanzo?

Più che un omaggio è il nucleo tematico del libro, la metafora dell’intera storia. È gigantesco, maestoso, capace di assorbire l’impatto di un aereo senza crollare. Ogni sua parte collabora con il resto perché stia in piedi. Proprio come la famiglia del mio romanzo”.

Come descriverebbe con tre colori il romanzo?

“C’è il verde della pineta, il colore che ho sentito con più forza. Il rosso di Diego, quello della furia, ma anche dell’amore. E il nero, quello del buio, il precipizio su cui i personaggi sono sempre in bilico”.

Progetti per il futuro?

“Ho in mente altre storie, ma lavoro con lentezza. È davvero troppo presto per parlarne”.

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