“Jukebox all’Idroscalo” ottimo esordio del cantautore Marco de Annuntiis

“Jukebox all’Idroscalo” ottimo esordio del cantautore Marco de Annuntiis

(nella foto di copertina Pasolini e Orson Welles sul set di La Ricotta)

Esordio con il botto per il cantautore romano Marco de Annuntiiscon il suo album solista “Jukebox all’Idroscalo“.

 

Il titolo rende un bellissimo omaggio al poeta\scrittore americano Allen Ginsberg, punto di riferimento della beat generation con il libro “Jukebox all’Idrogeno” pubblicato nel 1965, ma anche all’Idroscalo di Ostia, il luogo di periferia in cui fu ucciso Pier Paolo Pasolini.

 

Un album dove la vera protagonista è l’ironia graffiante, dissacrante, irriverente, ricca di citazionismi.

 

Grazie a ncora una volta a Fausto Bailo per aver permesso la realizzazine di questa intervista con il cantautore.

Marco, quali sono i suoi cantautori di riferimento?

“I miei riferimenti non sono solo cantautori, ma vari stili musicali che perlopiù affondano tutti le radici negli anni ’60: la psichedelia californiana, lo yè-yè francese, il freakbeat inglese ma anche il beat italiano. Parlando di cantautori in senso stretto quello che continuo ad amare di più è Serge Gainsbourg, infatti ho voluto aprire il mio disco proprio riprendendo un suo brano, “Le claqueur de doigts” di cui ho riscritto il testo in italiano col titolo “Jukebox trasformandola da jazz in twist.

Poi fra gli italiani non posso non citare De André, a cui ho dedicato una canzone intitolata appunto “Come De André che mi ha causato diversi problemi: i puristi mi hanno attaccato prendendola alla lettera, senza capire che non me la prendevo con Fabrizio ma con il culto superficiale che circonda lui come altri, quell’agiografia necrofila per cui dopo la morte si diventa santini intoccabili”.

Marco de Annuntiis

Com’è nato il titolo Jukebox all’Idroscalo?

È un gioco di parole fra Jukebox all’Idrogeno di Allen Ginsberg e l’Idroscalo di Ostia, il luogo del massacro di Pasolini. Il primo è la rivelazione psichedelica e il secondo il mistero più torbido, quindi da un lato c’è una citazione alla beat generation e al rock degli anni ’60-’70 che ne ha preso il testimone (Bob Dylan, Lou Reed) ma dall’altro anche la rivendicazione di un’identità territoriale periferica, diciamo da provincia dell’impero culturale.

 

Inizialmente avevo deciso di usarlo come nome del mio progetto musicale, proprio perché in passato mi ero sempre nascosto dietro a varie band e non mi andava di presentarmi burocraticamente col mio nome e cognome; poi invece mi sono deciso, dopo tante insistenze, a uscire allo scoperto ed è rimasto come titolo dell’album”.

Come è avvenuto l’incontro con il suo produttore discografico?

.”Ho conosciuto Luigi Piergiovanni in maniera del tutto fortuita, tramite amicizie comuni. Non è stato subito un rapporto idilliaco, anzi inizialmente aveva proposto un tipo di produzione molto orientato all’elettronica che portò la mia band precedente a sciogliersi dopo un solo singolo. Poi però stranamente fu proprio sua l’idea di farmi esordire come cantautore proponendomi di farlo con una produzione opposta, vintage e minimalista.

Disse che secondo lui io dovevo fare un album che non deve nemmeno sembrare che qualcuno lo abbia mai prodotto e questo mi convinse. Misi su un gruppo per l’occasione e registrammo tutto in pochissimi giorni, per fare tutto il più possibile dal vivo scelsi un altro chitarrista perché io volevo dedicarmi a suonare l’organo Farfisa. Poi siccome io ci tenevo a pubblicare l’album in vinile lui negoziò un accordo con la Cinedelic cedendo metà delle edizioni musicali. Certo, non stava cedendo la metà di La donna cannone, ma sinceramente non so quanti altri produttori al posto suo lo avrebbero fatto”.

Nelle sue canzoni, tocca un argomento particolare?

Non ho scritto quasi mai canzoni politiche o d’amore in senso stretto, ma credo che in qualche modo tutte le canzoni siano sempre politiche e sempre d’amore. Forse l’argomento preponderante dopotutto è la solitudine, sia in senso sociale che ontologico”.Titoli come Borderline o Io, io, io e gli altri parlano da soli.

 

Ad esempio ho parlato spesso di droghe, ma in una maniera che non è mai né celebrativa né pietistica. Nei miei testi ci sono donne scomparse dalla mia vita e amici scomparsi da questo mondo, ci sono personaggi reali come De André e letterari come Sherlock Holmes. Tutto sommato non faccio altro che scrivere canzoni che avrei bisogno di ascoltare e che nessuno ha ancora scritto”.

Se possese scegliere, preferirebbe essere un cantante stile MTV, oppure un cantautore di borgata?

Aldo Moro con Pier Paolo Pasolini

“Ma cantautore di borgata lo sarei in ogni caso perché vengo da un territorio, quello di Ostia, sul quale grava un certo stigma sociale anche da parte del resto di Roma. Quindi suppongo che dovrei rispondere MTV, fosse anche solo per la curiosità di provare qualcosa di diverso. La verità è che mi paiono categorie superate: la MTV che ricordo da ragazzino passava Neil Young, i Nirvana gli Alice in Chains… forse si osava di più nel mainstream di allora che nell’underground di oggi, che spesso non mi sembra così alternativo come si vorrebbe. Quindi alla fine non farei il cambio con nessuno e, se mi permette, nemmeno con tanti colleghi di borgata”.

Descriva il suo disco con tre colori…

“Sarebbero tutte tinte scure: Il blu perché è il colore della notte e della nuvola di fumo delle mie mille sigarette al giorno; Il rosso perché è il colore del sesso, del sangue e del vino; e infine ovviamente il nero, che è il colore dell’eleganza ma anche del lutto, dell’inchiostro e dell’umorismo cinico che spesso mi caratterizza”.

Dopo “Jukebox all’Idroscalo“, altri progetti?

“Sta per uscire un docufilm dedicato a Claudio Caligari (“Se c’è un aldilà sono fottuto” diretto da Fausto Trombetta e Simone Isola), un progetto nato da una mia idea e del quale ho anche composto le musiche originali. Sarà in concorso alla Biennale di Venezia e spero che incontri la curiosità degli appassionati anche nelle proiezioni successive.

 

A settembre sono uscite delle mie poesie inedite su Versodove, una delle poche riviste lettararie che viene distribuita anche in formato cartaceo: sono testi recitativi, non cantabili, ma hanno ugualmente una loro forza musicale e performativa; a volte li ho proposti anche nei miei concerti e con uno di questi penso di fare un singolo molto presto.
Un secondo disco potrei farlo anche subito, il problema non è la quantità di pezzi ma legarli insieme, mettere a fuoco il discorso: solo così può avere senso pubblicare un album completo in un’epoca in cui non è considerato più necessario né conveniente”.

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